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Francesca Pola Vorrei iniziare questa conversazione sul tuo lavoro parlando del metodo che ne costituisce non solo la modalità esecutiva, ma il fondamento operativo stesso. In altre parole, le tue impronte di pennello sempre della stessa misura, impresse sulla tela a intervalli regolari, sin dall'inizio non sono state una scelta stilistica esteriore, un espediente tecnico in vista di un qualche effetto di superficie, ma il significato stesso del tuo fare pittura in un modo nuovo. Sono la tua maniera di acquisire al dipingere uno spazio e un tempo estesi, che vanno oltre il perimetro del quadro: sono come l'alfabeto iden­tico e differente di un linguaggio pittorico diverso, che procede non per stratifi­cazione di materia, ma per espansione di energia. Quando hai iniziato a fare pittura in questo modo e com'è nato questo tuo metodo?

Niele Toroni La prima occasione in cui ho esposto le mie Impronte di pennello n. 50 a intervalli di 30 cm è stata la Biennale di Parigi al Musée d'Art Moderne nel 1967, come risultato del mio lavoro nei mesi precedenti. Un giorno nel mio studio stavo osservando un quadro sul quale avevo prima «marcato» i vari colori di cui avrei dovuto riempire la superficie nelle sue diverse parti: semplici colpi di pennello, che mi servivano da traccia per dipingere. E mi sono reso conto che la pittura in realtà era già tutta lì, non c'era bisogno di andare avanti per completare il quadro. Ma il colpo
di pennello era ancora un residuo troppo espressivo, una modalità tachiste, e allora ho distillato quell'intuizione gestuale in un'azione ripetuta e controllata: mi interessava riempire tutta la superficie, ma non con il gesto - la mia voleva essere una pittura all over, ma ordinata. L'impronta di pennello, che realizzo imprimendo il pennello due volte, una sopra all'altra, a intervalli fissi, è stato il mio modo di formalizzare questa esigenza di uscire dal quadro per fare una pittura senza limiti e confini.

FP Il tuo lavoro non si è mai posto il problema di mettersi in relazione con stili o tendenze, di posizionarsi storicamente rispetto a una tradizione, quella della pittura occidentale, che non intendi rifiutare, ma aprire alle sue ­possi­bilità più estese dando vita a un universo pittorico che, nella sua totale neutralità operativa, si fa dialogante. Mi piacerebbe provare a rintracciare una sorta di genealogia composita del tuo lavoro: non in termini di filiazione diretta né di imitazione, ma individuando alcuni artisti e intellettuali che ti hanno interessato nel corso del tuo percorso, non necessariamente tuoi contem­poranei, e nei quali si possa riconoscere una sintonia con il tuo lavoro fondata sulla visione razionale non analitica, su una specie di umanesimo della misura, che mi pare contraddistingua il tuo dipingere. Infatti, anche quando le tue impronte occupano superfici di dimensioni molto estese, si percepisce sempre questo equilibrio che le riporta a una dimensione di esperienza possibile e di dialogo, non di alterità alienata: come se fossero un organismo pulsante, non una decorazione sovrapposta.

NT Prima di arrivare alla formalizzazione dell'impronta avevo fatto tutta una serie di opere ispirate da un cavaliere di Paolo Uccello, che mi interessava proprio per la sua dimensione mentale tradotta in una pittura di grande forza. Questa serie l'avevo intitolata Attack: per me voleva essere un attacco alla pittura tradizionale, il mio modo di ripetere una stessa immagine, che però proprio perché veniva dipinta assumeva ogni volta un' identità diversa. Nell'universo del mio linguaggio rientrano poi altre componenti, da Le dernier tableau di Nikolai Taraboukine alle Vocali di Arthur Rimbaud, alle luci prospettiche di Piero della Fancesca, alle Ninfee di Claude Monet.
Certamente, tutto questo l'ho tradotto nella mia relazione con i luoghi, che è sempre dialogica: diciamo che a me piace pren­dere i luoghi come li trovo. In passato mi è capitato di fare dei lavori in luoghi anche molto diversi tra loro, come ad esempio in una vigna del Vallese oppure al Castello di Rivoli: in tutti i casi ho lavorato tenendo conto di quello che mi si presentava, decidendo di non alterare le strutture preesistenti, ma limitandomi a lavorare in questi spazi così come li trovavo. Quello che voglio dire è che, secondo me, il dialogo della mia pittura con lo spazio in cui la realizzo non è un dato a priori fatto di proporzioni matematiche astratte, ma è bello crearlo nella situazione concreta: la cosa ­importante è trovare quel momento di esattezza, affinché il rapporto tra il mio intervento e ciò che è già esistente funzioni. Bisogna procedere in modo tale che l'uno riveli l'altro.

FP Di questa modalità così libera e flessibile, con cui la tua pittura si mette in relazione con volumi e identità dei diversi spazi, mi sembra siano abbastanza emblematici i due interventi che hai realizzato di recente nella Villa Pisani Bonetti a Bagnolo di Lonigo, capolavoro giovanile dell'architetto rinascimentale Andrea Palladio. Ci vuoi raccontare come sono nati?

NT Palladio è certamente un grande architetto e la Villa Pisani Bonetti è molto bella: nonostante la sua importanza storica, è rimasta una casa, e in qualche modo questo mi interessava. Quando sono andato a vedere quello spazio cercavo una parete sulla quale lavorare, che potesse integrarsi con l'architettura e che allo stesso tempo permettesse alla mia pittura di farsi vedere. Ho deciso d'intervenire su tre elementi insoliti: due porticine laterali di servizio (elementi architettonici non significativi, che normalmente non servono come supporto per l'arte) e la bellissima arcata centrale chiusa speculare alla grande finestra termale. Così ho fatto realizzare una struttura di legno da inserire e sovrapporre alla parete storica, per evitare di toccare il muro direttamente, e ho iniziato a lavorare su questi tre elementi cercando di costruire un dialogo tra di loro, ma anche in modo che questo equilibrio triangolare generasse un senso di unità di questa grande parete con il resto dell'intervento pittorico pre­esistente nella volta affrescata e nelle decorazioni degli archi. Ho scelto poi questa tinta, questo rosso un po' scuro, appunto perché non volevo fare il classico «luogo nero» né volevo giocare usando toni verdognoli o marroni simili a quelli degli affreschi. Volevo semplicemente affermare un colore non descrittivo, che a me interessa sempre, come del resto tutti i colori detti puri: il giallo, il blu, il rosso, e che si rivelasse indipendente dal tutto e allo stesso modo fosse capace di valorizzare l'ambiente. Ho l'impressione che questa scelta funzioni: non disturba ed è visibile.

FP Mi pare interessante e specifico del tuo lavoro il rapporto della pittura con una dimensione, che non è solo quella della superficie, dell'affresco, della parete, ma che in qualche modo dialoga soprattutto con l'architettura, i suoi volumi, le sue direttrici di significato.

NT Sì, è proprio questo ciò che mi interessa. Nella mia vita ho fatto anche dei lavori più classici, su tela e altri supporti: mi piace ­lavorare su superfici differenti, che reagiscono in modo diverso alle mie impronte. Questi quadri, anzi, questi oggetti che creo, poi circolano da soli, vivono indipendentemente da me e da come vorrei disporli. Quando invece voglio essere preciso, il lavoro lo faccio direttamente sul muro, sull'architettura. Poi, tornando alla Villa Pisani Bonetti, può essere che mi piaccia, come ho fatto qui, ­realizzare diversi lavori in zone differenti. In questa villa m'interessa il contrasto che si è generato tra l'intervento nel salone centrale, che definirei classico, quasi come un omaggio all'architetto - da qui il sottotitolo che ho scelto: Un intervento pittorico per Palladio - e l'altro intervento, che ho fatto invece nelle cantine. Questo secondo lo sento come più leggero, più libero, ma gioca ugualmente sulla diversa possibilità, che è data dallo spazio e dalla sua morfologia, e in particolare da questi triangoli delle piccole vele poste negli angoli. Qui mi sono concentrato sugli angoli: perché i segni sono fatti negli angoli e vanno a rimarcare l'impianto dello spazio, che, seppur rimaneggiato, conserva ancora la bella struttura a volta delle cantine di un tempo. Questi angoli però sono anche come delle ali di angeli, e non mi dispiaceva l'idea di mettere gli angeli in cantina...ecco il sottotitolo: Angoli come angeli in cantina.

FP Tu non ami definirti artista, piuttosto ti piace parlare della tua opera come «travail/peinture», il che già è indice di una visione concreta, sempre calata «in situazione», della tua creatività. Ti interessano i materiali e loro fisicità: per questo il tuo lavoro, pur nella sua radicalità razionale, non può essere definito puramente concettuale o analitico. Non ti interessa la tautologia, piuttosto il ritmico posizionamento reciproco delle tue impronte, che rispondono ad una regolarità interna tendente ad annullarne il più possibile l'incidentale ­singola variazione, anche se non nascono come sottolineatura dell'identico. Questa progressione spaziale indica come tu non lavori sulla forma dell'opera, ma sulla sua volumetria interna, che si mette in relazione costante con ciò che la costituisce (materie e strumenti), ma anche con ciò che le sta attorno ­­(vuoto e pieno, proporzione ed equilibrio). Il tuo è un pensiero inscindibile dalla propria traduzione in opera e mi pare che questa sia la differenza ­sostanziale del tuo lavoro rispetto alle ipotesi seriali della Minimal Art e delle sue «primary structures», pensate come progettualità pura, indifferentemente realizzabili da un'autorialità assente, e non a caso a loro volta radice e origine del concettualismo.

NT La pittura per me è cosa materiale e soprattutto da vedere - non può essere un pensiero a priori tradotto su una superficie né una ­pura speculazione formale. Per questo io non faccio mai sopralluoghi, progetti preliminari, disegni preparatori: quando devo realizzare un intervento in un determinato spazio, ci vado, e quando sono lì percepisco l'energia di quello spazio, i suoi volumi, le sue tensioni, a volte anche le sue ambiguità. Le possibilità diverse del mio metodo sempre identico non si esauriscono nel numero dei suoi supporti né in quello dei suoi contesti di destinazione, perché ogni volta io sento lo spazio in modo differente.

FP In questo senso credo di poter dire che la tua opera è caratterizzata, fin dai suoi inizi, da un'attitudine antiretorica e antimonumentale: non tende a porsi come centralità assertiva e impositiva di un'immagine «altra», autonoma e indipendente, ma come presenza dialogante, che lavora sullo scarto, sul limite, sul margine che separa e unisce pittura e spazio e sul loro posizio­namento reciproco.

NT Certamente è vero che, rispetto alla profusione di interventi monumentali che si fanno oggi, rispetto a questo gigantismo che invade i nostri spazi del vivere, il mio lavoro è qualcosa di differente. Ti faccio un esempio: se la dimensione fosse indice di qualità, si dovrebbe dire che la scultura più bella che c'è a Parigi è la ruota panoramica a Place de la Concorde, quella giostra su cui salgono le persone per guardare la città dall'alto; è certamente una struttura fantastica, ma non basta che le cose diventino iperdimensionate per avere un interesse. Oggi c'è una tendenza crescente che indulge verso questi modi: a me invece sembra evi­dente che, se anche si fa una bottiglia alta venti metri e la si mette in una piazza, quella rimane sempre una bottiglia. A volte invece bastano tre impronte di pennello a rivelarti uno spazio. I peli di questo strumento, densi di pittura, lasciano la loro impronta: è come se tu appoggiassi il tuo dito lasciando la tua impronta digitale e queste macchie di colore in un angolino, che siano verdi, gialle, rosse o bianche, ti mostrano qualcosa e ti permettono anche una certa libertà di intervento, diversa da quella che c'è in altri tipi d'installazioni più composite. A me piace andare in giro con una mia borsa in cui metto i miei tre pennelli, una livella e un compasso: poi il colore posso anche comprarlo sul posto, questo mi basta per avere almeno l'illusione di una mia indipendenza, di una libertà. Mi dirai che di libertà ne abbiamo sempre meno, che siamo tutti controllati, però a me interessa avere la possibilità di lavorare così, senza disturbare nessuno, e lasciando a chiunque passi la possibilità di vedere. Forse il problema è proprio quello: rivedere le cose nella loro semplicità.

FP Mi piace questa immagine che riporta l'eccesso dimensionale della società dello spettacolo alla misura minima della singola impronta di pennello, dove sono fattori di regolarità, come posizione e ritmo, a definire attraverso la loro semplicità l'estensione dello spazio. In questo senso, credo di poter affermare che il vuoto ha nella tua pittura un ruolo fondamentale: non in quanto spazio astratto e separato che tu ricerchi, ma al contrario come elemento connettivo di questa energia spaziotemporale, che è la sequenza d'impronte. Infatti quello che m'interessa del tuo lavoro è anche questa ricerca di una dimensione materiale e fisica, che cerca di costituire un rapporto tra l'individuo e l'universo, che però diventa come una pelle in mutazione: una pittura, che sta scappando, che sta fuggendo dai luoghi, dove infatti spesso la rintracciamo sul margine.

NT Sì, forse questo è legato anche al fatto che io non ricopro sistematicamente tutta la superficie, pittorica o architettonica che sia: mi interessa il rapporto tra il dipinto e il non dipinto, perché l'uno serve all'altro affinché si valorizzino. Paradossalmente, questo legame permetterebbe al primo di scappare, perché nella mia ottica non c'è un formato ideale che connota la pittura. Io dico sempre che il mio lavoro va considerato come una totalità indivisibile, non come una serie di singole opere: sarà sostanzialmente tutto quello che avrò fatto fino al giorno in cui smetterò. Per questo motivo il concetto di «capolavoro» non ha senso, secondo me: se puoi fare un capolavoro piccolissimo, quando ne hai fatto uno è come se avessi fatto tutto ciò che potevi fare e dunque smetti, ti fermi. Ecco quindi che io, ogni volta che arrivo a fine giornata, sono contento per quello che ho fatto in quel giorno: sono soddisfatto perché quello che m'interessa non è solo pensare l'opera, ma vederla fisicamente, come dicevi tu, perché la pittura è cosa fisica. A questo proposito una volta ho scritto un testo in cui riprendevo alcune parole di Leonardo da Vinci, che affermava l'essenza materiale della pittura piuttosto che la sua istanza mentale. Questo concetto a me è sempre sembrato molto chiaro. Voglio dire, sarebbe come sostenere che il vino è cosa mentale...Infatti c'è gente, al giorno d'oggi, che crede di poter parlare di vino, perché ha visto un programma televisivo a riguardo oppure perché impara a memoria le carte dei vini nei ristoranti più chic di Parigi. Poi però, sorseggiandolo, non è in grado di distinguerne le diverse qualità d'annata. Insomma, è come chi va a fare un giro in un bosco e non s'interessa alla varietà degli alberi. O forse semplicemente esiste un'altra visione del mondo rispetto alla mia, che permette di dire che gli alberi sono tutti uguali...

FP Questa prospettiva, diciamo concreta e relazionale, della tua pittura fa sì che essa non riduca lo spazio dipinto a un'immagine puramente visiva, ma lo dischiuda come immagine illimitata: il tuo dipingere non occupa né riempie lo spazio, ma vuole liberarlo attraverso questa volumetria aperta, che è l'impronta del suo materializzarsi sempre differente a cadenza regolare e ordinata. L'impronta è in genere associata a un'identità individuale e individuata, ma nel tuo lavoro invece diventa allo stesso tempo qualcosa di universale. Credi che potresti dipingere in altro modo?

NT Queste impronte io le ho trovate progressivamente partendo dalle mie idee, che si sono sviluppate osservando cose molto ­differenti: dal cavaliere di Paolo Uccello, che vedevo al Louvre e che riproducevo sempre, al dripping di Jackson Pollock, che altro non era se non la pittura che si creava da sola, facendo solo un gesto. Così sono arrivato a quest'impronta di pennello, che è semplicemente l'impronta di un pennello, un segno che potrebbe fare chiunque, ma che rimarrebbe sempre e solo l'orma di quello strumento. Dire questo oggi non è ammesso o almeno si tenta sempre di nasconderlo, perché tutti vogliono affermare la propria autorialità e il proprio voler essere artisti. Io invece mi sento ­semplicemente pittore: ho tre strumenti, quelli che servono a dipingere. E magari sbaglio completamente, perché quello che faccio non interessa più a nessuno, ma interessa a me...potrei fare cinema o fotografie, ma mi sembra giusto continuare così.
Sai, oggi non si è più scultore, pittore o architetto, oggi si è plasticien, come dicono in Francia, che vuol dire che finalmente si può fare tutto: ma io continuo a pensare che forse sarebbe meglio ristabilire delle scuole d'arte dove gli studenti imparino a disegnare un nudo o a scolpire un marmo nella vena giusta, anche se magari poi non lo faranno più nella loro vita. E invece adesso in arte, in nome di una pseudo libertà, si fa un tale pot-pourri che a volte sembra solo si voglia compiacere quella borghesia, che richiede cose semplici, non troppo dure da digerire, ma che siano spettacolari. E il mio lavoro, che magari spettacolare poi può diventarlo, in partenza non lo è assolutamente.

FP Si può dire che il tuo lavoro appaia sempre formalmente simile ma ­intrinsecamente diverso. Come vivi questo rapporto tra identico e differente nella tua opera? Che tipo di rapporto può avere con quello che si fa oggi nell'arte contemporanea?

NT Diciamo che le mie impronte non sono forme preesistenti, perché altrimenti ricadrei in tutta quella ricerca di geometria, che adesso sembra persino andare un po' di moda. Ora come ora, sembra che riscoprano tutti i triangoli, i cerchi, i quadrati: quelle sono forme preesistenti, quindi fare un quadratino in un quadro geo­metrico piuttosto che una mela in una natura morta fa poca diffe­renza. Detto questo, è chiaro che spesso il mio lavoro è simile a se stesso e ha un andamento più o meno geometrico, ma la sua identità specifica sta nel fatto di non essere riproducibile: al ­massimo si potranno fare delle foto, ma poi si dovrà fare una scelta, privilegiare lo scatto di un'impronta piuttosto che quello di un'altra. Troppo spesso oggi vedo attorno a me «cose» che non m'interessano­­ mini­­mamente e penso, visto il parlarne che se ne fa, che ha­ ragione quel personaggio, che (in un libro di Samuel Beckett) dice: «il miglior modo di parlare di niente, è di parlarne come di qualche cosa».
Io, come tanti, lavoro con un arnese tradizionale, il pennello, e una materia, tradizionale anche lei, la pittura. Vedo lavori artistici fatti con gli attrezzi più moderni, rivoluzionari, fatti per stupire... Purtroppo sono cose già viste, che si vogliono moderne e veicolano solo ideologia vecchia. Ai tempi si diceva «impara l'arte e mettila da parte». Oggi potremmo dire «non imparare niente ma fa' l'arte».

FP In questa materialità della singola impronta, come concentrato di un gesto controllato, mi pare che un ruolo fondamentale sia quello che riveste il tempo. Ti ho visto lavorare e lo fai con un ritmo molto serrato: nell'osservarti da un lato si percepisce come questo metodo creativo sia ormai intrinseco al tuo agire naturale e, dall'altro, si nota una tua grande concentrazione, quasi un'ossessione rituale nel cercare di coniugare queste due dimensioni di un tempo assoluto con un altro più relativo, contingente.

NT Sì, c'è anche un po' di quello, ma per me anche il tempo dell'opera e del suo farsi è soprattutto legato a fatti puramente mate­riali: la pittura si secca e quando tu adoperi un pennello devi sapere come usarlo; potrebbe farlo chiunque, è vero, ma ci vuole un minimo di esercizio. È vero anche che da parte mia c'è molta con­centrazione: sono completamente immerso nel dipingere perché c'è un ritmo da rispettare...e oltre a questo c'è anche la voglia di vedere il risultato! Al Museo d'Arte Contemporanea all'Aperto di Morterone ho realizzato un intervento in esterni, che addirittura assume quasi la forma stilizzata di una clessidra: come un veder scorrere il tempo che è poi il nostro modo di attraversare la vita.
Poi c'è un altro concetto di tempo, oltre a questo del tempo di creazione, vale a dire la durata. Ci sono alcuni muri sui quali ho realizzato degli interventi: le pareti si scrostano e dunque le im­pronte vanno via da sole. Ci sono anche dei lavori che sono previsti per un periodo ben preciso e poi si ridà una mano di bianco al muro e anche quello fa parte del gioco. È normale, però c'è una riflessione, che mi fa sorridere: con gli anni che passano, mi rendo conto che l'impronta invecchia meno di me. Mi capita di andare in certi posti, dove ho fatto qualcosa vent'anni fa e trovare ancora il lavoro quasi fosse stato appena realizzato, come per esempio all'Hamburger Bahnhof di Berlino, oppure al Castello di Rivoli. I colori sono sempre freschi, ha più problemi il muro dietro, perché il bianco ingiallisce o si scrosta e a quel punto non ha più senso restaurare il tutto, piuttosto si sceglie di rifare il lavoro.
Io non credo tanto a questo concetto di durata in rapporto al valore artistico: un lavoro non è più interessante di un altro perché ha quarant'anni piuttosto che un giorno. Al limite può essere interessante sul piano di una mia paradossale non progressione e cioè ­che dal 1967 faccio sempre e solo le stesse impronte di pennello. Ma le cose si fanno e basta, io l'ho sempre detto: è come camminare, si mette un piede davanti all'altro per andare a vedere quello che ci interessa oppure si sceglie di stare fermi. Molti artisti di oggi, invece, mi fanno spesso pensare che vorrebbero a tutti i costi trovare un nuovo modo di camminare e allora mi chiedo che cosa si possa ottenere di positivo da quello...

FP Mi piace questa metafora del camminare perché a me, vedendo il tuo lavoro, viene in mente quella del respirare: come di un qualcosa che ha una sua regolarità necessaria. Camminare dentro la pittura, respirarla: sono metafore che, davanti alle tue impronte, si fanno esperienze concrete...

NT Sai, su questo ho riflettuto tanti anni fa: citavo delle frasi, che ho sempre trovato interessanti in vita mia, credo fossero di Henri Lefebvre. Parlando della ripetizione lui diceva che tutti hanno paura di questo termine - «ripetizione» - , ma non si rendono conto che questa ripetizione è la nostra vita, perché se il cuore non ­battesse stupidamente sempre uguale a se stesso noi saremmo morti. Il respirare è un gesto simile: insomma, secondo me noi siamo questa ripetizione. Che cosa è in fondo l'individuo se non un tutto di solitudine e ripetizione?

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Niele Toroni